I wrote this post in Italian in March 2011, after witnessing the Great Sendai earthquake. A shorter version in English is available here.
Scendo alla fermata Meiji-Jingumae, uno delle centinaia di punti di accesso alla gigantesca rete di trasporto pubblico di Tokyo. La stazione della metropolitana è ad un incrocio tra due ampie strade trafficate, con i larghi marciapiedi e le vetrine scintillanti che caratterizzano il popolatissimo distretto di Shibuya. Entro in un negozio di souvenir, e mentre osservo divertito un espositore carico di portachiavi di Hello Kitty, sento una lunga vibrazione nel pavimento, come quelle che si sentono sopra le linee della metropolitana.
Il fenomeno dura un po’ troppo, e penso che si deve trattare di un treno molto lungo che sta passando a tutta velocità proprio qualche metro sotto di me. La vibrazione aumenta, e i portachiavi iniziano debolmente a oscillare. Gli altri clienti si scambiano occhiate veloci e si dicono qualcosa in giapponese. Ci dirigiamo tutti verso l’uscita del negozio, mentre la vibrazione inizia a muovere il pavimento. Fuori, ho l’impressione che tutto si svolga al rallentatore. Il flusso di traffico stradale si congela in pochi istanti, e centinaia di persone camminano con passo incerto verso il centro della strada, guardando verso l’alto come se stesse per arrivare un attacco aereo.
Le gambe mi portano ad un’isola di traffico, vicino a un giapponese di mezza età. La prima catena di pensieri che affiora nella mia mente riguarda il fatto che i terremoti in Giappone sono fenomeni comuni, che prendono di sorpresa i visitatori. Gli chiedo con aria forzatamente serena “Is this normal?”, indicando il suolo e pregando per una risposta affermativa. L’uomo decodifica la domanda e risponde serio, senza esitazione, che “no, not normal, big, very big”, per poi rivolgere gli occhi verso l’alto.
Le scosse aumentano di colpo. L’asfalto inizia a muoversi orizzontalmente, con irregolari e potenti movimenti ellittici, prendendoci tutti di sorpresa. Alcuni gridano, altri cadono a terra, la maggior parte rimane in piedi e lotta per mantenere l’equilibrio, guardando verso la cima dei palazzi circostanti. Le vibrazioni si trasmettono con violenza a tutti gli oggetti visibili, uffici da 6 piani, condomini, alberi, segnali stradali blu, semafori rossi e verdi, lampioni spenti, automobili ferme, pullman pieni di passeggeri, finestre socchiuse, porte scorrevoli aperte, vetrate pulite, scaffali, cespugli ben potati, centraline elettriche, marciapiedi asettici, ringhiere appena riverniciate. Tutto l’arredo urbano viene sconquassato da un’invisibile tempesta energetica, generando un inquietante rumore di ferraglia sbattuta.
Le scosse si trasmettono attraverso le gambe al petto, alle braccia e alla testa. Fiumi di adrenalina entrano in circolo, e il battito cardiaco aumenta di intensità e ritmo dandomi l’impressione che il torace sia gonfio come un palloncino prossimo a scoppiare. Il cuore rimbomba nel cranio, e non riesco più a capire se le scosse arrivino dall’esterno o se sia io a produrle. Incrocio gli sguardi di altre persone, senza riuscire a vedere altro che terrore. Sono sospeso con un’umanità impotente e indifesa, che centinaia di simulazioni anti-sismiche fin dall’asilo non hanno preparato meglio di me alla morte possibile che ci attende in agguato tra le scosse.

Attorno alla fermata di Meiji-Jingumae non ci sono grattacieli, autostrade e ferrovie sospese e grandi cavi elettrici che invece opprimono molti quartieri della metropoli. Da dove mi trovo non si vedono palazzi che superano i 5-6 piani. Li guardo tutti vibrare paurosamente, calcolando improbabili percorsi di fuga in caso di crolli. Alcuni vetri si spaccano, ma con discrezione, senza esplodere. Una libreria al quarto o quinto piano di un palazzo viene lanciata verso la finestra e la sfonda rimanendo incastrata in diagonale, mentre alcuni libri volano verso il marciapiede sottostante, deserto, seguiti da centinaia di occhi sbarrati.
Mentre le scosse non diminuiscono di intensità, guardo a terra l’asfalto che si muove rapidamente. Ricordo improvvisamente di essere su una città multistrato, con profonde strutture sotterranee che ospitano stazioni ferroviarie, ristoranti, uffici e supermercati. Mentre i palazzi vibrano come blocchi di gelatina, nella mia mente si affollano immagini di gallerie che si accartocciano sotto tonnellate di cemento e acciaio, di voragini che fendono l’asfalto per inghiottire tutto nelle viscere della terra.
Dopo un tempo infinito – che scoprirò ammontare solo a due minuti – la velocissima sequenza di pensieri premortem si affievolisce e mi accorgo che le scosse stanno diminuendo di intensità. Lo capisco dalla sensazione delle gambe che tremano, che fino a quel momento non riuscivo neanche a percepire. Gli sguardi si incrociano con maggiore frequenza, sui volti cianotici compaiono smorfie simili a sorrisi. Il terremoto si spegne, come una lavatrice che ha finito il suo ciclo distruttivo. Le gambe vorrebbero cedere, ma l’adrenalina mi tiene in piedi, mentre barcollo ricercando un punto di equilibrio. Sorrido inebetito, respiro a fondo, e osservo le persone attorno a me uscire progressivamente dalla paralisi. Alcuni iniziano a parlare, e non ho bisogno di capire il giapponese per sapere che stanno dicendo che il peggio deve essere passato.
Noto un uomo elegante dai tratti nord-europei vicino a un’aiuola. Muovo qualche passo incerto nella sua direzione, nelle modeste possibilità dei miei arti tremanti, e gli chiedo se parla inglese. “Sono inglese”, risponde lui. Gli chiedo che cosa sta succedendo. “Non lo so. Faccio l’architetto qui da anni ma non ho mai visto nulla del genere”. Poi indica l’edificio di vetro e acciaio che abbiamo di fronte. “Quello l’ho progettato io. Se mi crollava addosso, almeno sapevo a chi dare la colpa”. Rido di gusto, frenando l’impulso di abbracciarlo. È difficile crederlo, ma siamo tutti vivi.
Aftershock
Alcuni si rimettono in movimento verso la loro destinazione. Altri, me compreso, rimangono fermi in mezzo alla strada, senza sapere cosa fare. Impugniamo i cellulari e gli smartphone, cercando di comunicare con famiglia e amici. Il segnale è presente, ma gli sms non vengono consegnati e non è possibile fare chiamate. Impiegati escono dagli edifici più alti, pallidi in volto. Si formano gruppi circolari di persone. Comunicare in inglese con i giapponesi ancora in strada è difficoltoso, e rinuncio dopo qualche tentativo.
I gaijin, non-giapponesi, si aggregano spontaneamente. Parlo con un gruppo di impiegati francesi che erano in ufficio. “I nostri colleghi giapponesi si sono lanciati sotto le scrivanie gridando. Noi invece siamo scesi di corsa dalla scala antincendio”. Neanche i loro telefoni funzionano. Turisti americani mi dicono che hanno ancora le gambe tremanti e che non riescono a muoversi, ma sono contenti di aver girato dei video durante il terremoto. L’unico fatto su cui concordiamo tutti è che credevamo di morire sepolti da tonnellate di cemento.
Un poliziotto usa paletta e fischietto per far proseguire le automobili, bloccate dai pedoni in strada. Tutti i trasporti pubblici sembrano sospesi, e anche se non fosse così l’idea di scendere nelle profonde gallerie della metropolitana è fuori discussione. Ricordo che sulla Lonely Planet,sezione “terremoti”, viene suggerito di andare in grandi parchi, lontano dalle costruzioni. Decido di allontanarmi dal cemento, cercando spazi verdi che certo non abbondano nella regione più urbanizzata del mondo. Dopo qualche svolta casuale, mi rendo conto che sto in realtà camminando verso grattacieli famosi per essere costruiti su molloni antisismici sotterranei.
Nella vetrina di un negozio di elettronica c’è un televisore acceso. Si vedono immagini surreali di navi scaraventate a riva come fossero giocattoli abbandonati su una spiaggia. L’unica parola che capisco del servizio è tsunami, e chiedo spiegazioni ai giapponesi accalcati davanti alla vetrina, senza cavarne molto a causa della barriera linguistica. All’idea che lo tsunami stia per arrivare a Tokyo, chiedo con isteria “here? HERE?”, indicando la tv. Uno di loro capisce, e mi dice “No, North, Sendai”, che mi basta per riprendere il controllo. Una penisola larga una cinquantina di chilometri ci protegge dal Pacifico e dalle sue onde anomale,battezzate “onde del porto” dai pescatori giapponesi che le conoscono e temono da millenni.
Dopo circa un’ora di vagabondaggio in un’area ultra cementificata, constato il fallimento del piano “trova un parco” e mi accorgo di avere molta sete. Mi avvicino al dehors di uno Starbucks, situato in un edificio abbastanza basso e moderno da non suscitarmi terrore. Un corpulento americano di colore è seduto a un tavolino e armeggia con uno smartphone. Mi dice che è un giornalista, e che sta cercando di contattare sua figlia piccola, che era a scuola in un’altra parte della metropoli. Mentre parliamo arrivano nuove scosse, che ci riportano verso il centro della strada.
“Dovrebbero essere solo degli aftershock, scosse di assestamento”, dice il newyorkese, e in effetti le vibrazioni rimangono di vari ordini di grandezza più basse di quelle del primo pomeriggio. Con cautela ci risediamo nel dehors. Gli chiedo cosa si fa di solito in queste situazioni, e lui mi consiglia di tornare all’albergo prima che tramonti il sole e che inizi a fare molto freddo. Venendo a sapere la mia nazionalità, l’americano mi consiglia di approfittare dell’emergenza per avvicinare donne giapponesi. Mentre gli faccio notare che il sesso non è tra le mie attuali priorità, altre piccole scosse scuotono i costosi menu della catena americana, facendoci scattare in piedi di riflesso. Gli ultimi raggi di sole si affievoliscono e l’aria si raffredda sensibilmente. Non vedendo alternative, auguro buona fortuna all’Americano e mi metto in marcia verso l’hotel, tra i primi brividi di freddo.
Sulla cartina il mio hotel nel nord-ovest di Tokyo sembra relativamente vicino, ma i trasporti giapponesi sono notoriamente veloci e falsano le distanze. Sì tratta di più di 10 chilometri. Sorretto dall’adrenalina ancora in circolo, mi unisco a un fiume umano di persone che tornano a casa a piedi. Si formano flussi che avanzano a velocità sostenuta, invadendo ordinatamente le strade quando i marciapiedi sono troppo piccoli. Quando si creano ingorghi, nessuno spintona, nessuno grida, nessuno perde la calma. Si aspetta in fila, finché i flussi ripartono.
Durante la sessione di trekking urbano incontro altri gaijin diretti verso quartieri a nord di Tokyo. Nuove scosse di assestamento continuano a dare un senso di instabilità e pericolo costante. Le comunicazioni iniziano a funzionare a singhiozzo e finalmente è possibile, anche se dopo numerosi tentativi, inviare sms e visitare qualche pagina web sullo smartphone. Frammenti di agenzie, opinioni di giornalisti e testimonianze dirette vengono smistati sulle affannate reti digitali giapponesi. Un veloce passaparola mediato dai social network disegna una prima, incompleta mappa della catastrofe.
Tokyo ha riportato danni modestissimi grazie alla sua miracolosa tecnologia antisismica, ma a nord lo tsunami sta spazzando via intere città. Le autorità raccomandano di chiudere il gas, e vengono trasmesse informazioni in tempo reale sulla fornitura di corrente elettrica, sugli incendi e sul cruciale trasporto pubblico, senza il quale milioni di pendolari sono paralizzati. Il linguaggio pacato e rassicurante delle agenzie del governo si contrappone a quello sensazionalistico e catastrofico dei media, e tutti sanno che la verità si cela altrove, difficile da afferrare.
Gli analisti emettono dati di dubbia utilità e attendibilità e i conglomerati mediatici li pubblicano automaticamente, nella frenesia di arrivare prima della concorrenza. Il terremoto è il più potente della storia del Giappone, è il più potente del mondo, è il più distruttivo di quelli registrati, è ottomila volte più potente di un altro terremoto, ventimila volte più potente di Hiroshima, meno potente dell’Apocalisse, i dispersi sono venti, cento, mille, forse ventimila, ma ne hanno ritrovato uno sul tetto, un altro su una zattera. L’unica notizia che vorrei leggere, cioè che il terremoto è finito, non arriva, anzi. I sismologi temono altre scosse, non necessariamente meno intense delle precedenti.
Dopo tre ore di immersione nel flusso pedonale e informativo, arrivo all’hotel. Il piano terra è allagato. “Si è rotto il serbatoio dell’acqua sul tetto”, mi dice una receptionist circondata da secchielli. Con efficienza stoica mi dà tutte le informazioni in inglese che ha a disposizione. A pochi isolati di distanza le autorità hanno allestito un rifugio. Guardando il decrepito edificio allagato che ospita l’hotel, il mio istinto di autoconservazione mi dice che non posso passare la notte lì.
Scosse fantasma
T. ha una trentina d’anni e vive con la sua famiglia in un appartamento nel nord-ovest di Tokyo. Ci siamo conosciuti in Francia anni fa dove io studiavo svogliatamente all’università e lui lavorava in un ristorante di nouvelle cuisine, e da allora ho sempre promesso di venirlo a trovare in Giappone. Avevamo un appuntamento al tempio di Yasukuni per le sei del pomeriggio di venerdì per andare a passare un paio di giorni sulla sua barca a vela, ancorata nella baia di Tokyo. Tra terremoto e tsunami, è difficile immaginare ragioni migliori per non voler essere su una piccola imbarcazione nel pacifico.
Il terremoto lo sorprende nel suo ufficio, al secondo piano di un grattacielo in un quartiere commerciale nel sud della megalopoli. I mobili cadono, gli schedari vengono scaraventati sui muri, come se un manager avesse deciso di sfasciare tutto in un attacco d’ira dopo aver perso un cliente importante. Senza poter comunicare, ci immettiamo entrambi nei fiumi di impiegati che tornano verso la periferia dal centro. Entriamo da punti diversi, e dopo ore di navigazione a vista riemergiamo al mio hotel, punto di ritrovo naturale in assenza di altre informazioni.
T. ha contattato la sua famiglia tramite i telefoni di emergenza verdi sparsi per tutta la capitale. Stanno tutti bene, a parte lo shock da terremoto che ha scosso ogni abitante di Tokyo. È troppo tardi per raggiungere casa sua a piedi, e decidiamo di passare la notte in un rifugio poco distante dall’hotel. È una grande struttura di vetro e acciaio che ospita una sala concerti e svariati ambienti per l’esercizio della musica classica.
A Tokyo, più gli edifici sono recenti più sono antisismici, e l’architettura minimale della sala concerti dà un senso di solidità e sicurezza che permette al mio sistema nervoso una tregua dal logorante senso di pericolo. Nei sotterranei ci sono poliziotti che distribuiscono coperte. Un gruppo di persone siede in un angolo attorno a un televisore che trasmette i bollettini del governo in giapponese, un commento audio per me incomprensibile alle grottesche immagini dello tsunami. Ci sdraiamo tra decine di impiegati in giacca e cravatta che russano, per passare qualche ora di sonno leggero.
Alle 8 del mattino di sabato ci alziamo, non molto riposati, e esploriamo i paraggi del rifugio. I trasporti pubblici sono ancora quasi del tutto fermi, mentre il traffico automobilistico è insolitamente leggero. Strade, normalmente sovraccariche di mezzi e persone, sono semi deserte. L’unico cibo che troviamo è una minestrina di noodles liofilizzata, che mangiamo in piedi in un negozio, rendendoci conto che non avevamo ingerito nulla di solido per 16 ore. I rifornimenti sono, nel migliore dei casi, irregolari. In una metropoli che deborda di prodotti e servizi presentati con aggressività ai passanti, qualche scaffale vuoto basta a trasmettere un’impressione di profondo disordine.
In base alle notizie che continuano a rimbalzarci addosso, non sembrano esserci ragioni per considerare la crisi terminata. Al contrario, nei media trapelano problemi con la centrale nucleare di Fukushima, anche se, dice il governo, tutto è rigorosamente sotto controllo. Decido di prendere l’opzione più sicura, cioè cercare di partire dal Giappone verso lidi più rassicuranti. Il piano è semplice: raggiungere l’aeroporto di Narita, a 60 km a nord-est di Tokyo, e prendere il primo volo disponibile per l’Europa. T. comprende la mia scelta con un po’ di invidia, e si offre di accompagnarmi in macchina. Senza ripensamenti, accetto la sua proposta con incalcolabile gratitudine. Ci dirigiamo verso casa sua.
I pullman si sono parzialmente riattivati. Ne prendiamo uno, stracarico, verso la casa di T. In una mezz’ora di viaggio in ampie strade deserte siamo al condominio. L’appartamento dei suoi genitori è al nono piano. L’ascensore è fuori uso, e saliamo le scale. L’edificio ha retto al terremoto, anche se si notano piastrelle staccate sui pianerottoli. I suoi familiari sono ritornati tutti a casa, e hanno già quantificato i danni. Tra vetri e piatti rotti, la casa dà un senso di desolazione. L’unico a essere a casa durante le scosse più forti era il cane, che non può comunicare il suo spavento e che sembra in buona salute. Cercando di nascondere la tensione che mi trasmette il fatto di essere al nono piano in un vecchio edificio, mi intrattengo in una discussione che inevitabilmente verte sul jishin, il terremoto, e le sue conseguenze.
Una cosa strana dei forti terremoti, mi confermano, è il fatto che anche dopo giorni si continuano a percepire vibrazioni “fantasma”. Ogni minima vibrazione, magari causata da una porta che sbatte, viene interpretata dal proprio apparato percettivo come un pericolo imminente dal quale bisogna proteggersi. Il fenomeno può logorare nervi per giorni. Mentre T. prende le chiavi della macchina, auguro alla sua famiglia che la crisi venga superata in fretta, sperando di poterli rivedere un giorno in una situazione meno infelice.
Tornati al livello del suolo, prendiamo l’auto del padre di T., una grande Mercedes. Sono lieto di dover intraprendere un viaggio del genere su un’ammiraglia tedesca piuttosto che su una piccola utilitaria elettrica. Sono le 3 del pomeriggio. T. imbocca una massiccia autostrada sopraelevata che taglia la capitale orizzontalmente, mentre altre arterie sono riservate ai mezzi di emergenza, che vediamo sfrecciare sopra e sotto di noi, probabilmente per spegnere incendi e riparare infrastrutture critiche. Come spesso accade sulle strade giapponesi, nessuno rispetta i limiti di velocità, neanche T. Con un profondo ruggito, la Mercedes mangia chilometri e prosciuga decine di litri di benzina.
Attorno a noi si staglia un cityscape inumano o, sarebbe meglio dire, post-umano. Passiamo in volo tra complesse e intricate strutture di cemento e acciaio volute da architetti visionari e folli, collegate da mostruose infrastrutture sospese che hanno retto a uno dei terremoti più potenti della Storia giapponese. Attraversando verso est la pianura del Kanto, agli agglomerati urbani si aggiungono grandi strutture industriali simili a quelle immaginate da Katsushiro Otomo in Akira. Fabbriche futuristiche segnalano la propria presenza con luci rosse lampeggianti montate sulla cima delle imponenti ciminiere.
Troviamo una stazione radio che trasmette bollettini aggiornati in inglese, giapponese, cinese e coreano. Le notizie sui danni umanitari ed economici dello tsunami lasciano il posto alla cronaca della centrale di Fukushima. Ogni mezz’ora il governo rilascia una dichiarazione leggermente peggiore della precedente. Il climax si articola così: “Si esclude la possibilità della fusione del nocciolo”, “La fusione del nocciolo è un’eventualità molto remota”, “Non si può escludere del tutto la fusione del nocciolo”, “A quanto pare il nocciolo potrebbe essersi fuso”, “Il nocciolo si è fuso”. T. istintivamente chiude l’aereazione del veicolo, come se potesse servire a evitare la contaminazione. Tentiamo di sdrammatizzare, senza riuscire a nascondere l’angoscia dell’invisibile minaccia nucleare, che la famigerata Tepco sta quasi certamente ridimensionando.
Dopo qualche decina di chilometri veniamo dirottati fuori dall’autostrada, chiusa alle automobili comuni. Finiamo impantanati in una strada su cui si snoda una coda a perdita d’occhio, immobile. Curiosamente, il servizio giapponese che segnala le condizioni di traffico funziona ancora, e il navigatore satellitare colora di rosso il lungo percorso che ci divide dall’aeroporto. Nelle successive due ore percorriamo poche centinaia di metri. Il panico si fa strada nelle nostre menti stanche e suggestionabili, e l’indicatore della benzina segnala che siamo già a un quarto del serbatoio.
L’isteria nucleare si diffonde più velocemente delle radiazioni. La madre di T. lo chiama sul cellulare, e gli chiede di comprare subito una maschera antigas. “Più che di una maschera ora avrei solo bisogno del passaporto”, risponde lui. Ci guardiamo attorno in preda all’angoscia. Siamo a Funabashi, a est di Tokyo, ancora molto distanti dall’aeroporto Narita. Automobilisti esasperati tentano sorpassi azzardati per guadagnare un paio di posizioni nella lunghissima carovana, e motociclisti fanno pericolosi slalom tra i veicoli fermi. La minaccia atomica incombe su di noi, e aspettiamo che si manifesti da un momento all’altro, forse nella forma di un immenso occhio che si apre nel cielo, come l’aveva rappresentata Akira Kurosawa in un suo film.
Parigi, solo andata
Su una ferrovia passa un treno, l’unico che abbiamo visto in tutto il giorno. T. si illumina e mi dice che quella linea va verso l’aeroporto, ed evidentemente è stata riaperta. La stazione più vicina si trova a poche centinaia di metri. Il piano ha una sua coerenza, e a questo punto qualsiasi cosa sembra preferibile a un ingorgo stradale lungo decine di chilometri con la certezza di rimanere senza benzina. Gli auguro buona fortuna, senza riuscire ad esprimere la gratitudine che provo verso di lui e la sua famiglia, e corro verso la stazione, seguendo la ferrovia.
La stazione è aperta, anche se due delle quattro linee sono chiuse per incidenti, cosa che non mette dell’umore giusto per salire su un treno. Mi dirigo verso un impiegato delle ferrovie e gli chiedo se ci sono treni per Narita, temendo di dover passare la notte in quella piccola e inospitale stazione di periferia. “Sì, il prossimo parte tra 10 minuti. Costa 9000 yen”, mi dice in un inglese approssimativo. Compro il biglietto e mi lancio verso il binario. Il treno, incredibilmente, passa in perfetto orario, e continua la sua corsa verso l’aeroporto. La linea ferroviaria sopraelevata di una ventina di metri sopra il tessuto urbano ha retto al terremoto, anche se tratti con inclinazioni molto forti fanno pensare a uno spettacolare e possibile deragliamento. Ma queste fobie vengono superate in ordine di grandezza dal terrore dell’invisibile contaminazione radioattiva.
Nel vagone c’è un’adolescente tedesca, anche lei determinata a lasciare il Giappone il prima possibile. “Non voglio avere figli deformi”, mi dice senza celare i suoi eccessivi ma comprensibili timori atomici. Aggiunge che “I Giapponesi sono pazzi a costruire centrali nucleari sul territorio più sismico del mondo”, e non mi sento di darle torto. Dopo circa mezz’ora, il treno entra nell’aeroporto. Centinaia di passeggeri, soprattutto asiatici, dormono negli spaziosi ambienti della struttura.
Allo sportello della KLM, con cui ho un biglietto prenotato per il giorno seguente, gli impiegati sono visibilmente stressati e mi dicono che non ci sono più voli liberi per il resto della giornata, e che l’aeroporto è considerato per ora sicuro dalle radiazioni. Afflitto dall’idea di una notte sul pavimento, rivedo la tedesca. “Mi hanno cambiato il volo a quello sportello”, indica uno sportello di Air France poco distante, “sono su di un volo che parte tra 20 minuti”, mi dice con l’aria di chi credeva di avere il cancro ma ha scoperto di essere sano come un pesce.
La ragazza corre verso i gate, dopo avermi augurato buona fortuna, come viene naturale fare nel mezzo di una catastrofe. Allo sportello, una donna giapponese con mascherina prende il mio passaporto, e non so in base a quale procedura mi restituisce un biglietto per Parigi su di un volo che parte dopo pochi minuti. Prende il mio bagaglio, e aggiunge “now run”, visto che l’imbarco è già in corso. Con uno slancio di energia corro a lunghe falcate verso al gate, dopo aver passato i controlli di sicurezza a velocità record. Mi accodo col fiatone agli ultimi passeggeri e salgo su di un lussuoso Boeing, dopo aver raccattato una copia di tutti i quotidiani francesi che Air France mette sempre a disposizione in una rastrelliera.
Mi siedo e mi accorgo di emettere l’odore acre di chi ha dormito nei propri vestiti e non si lava da tempo. La maggioranza dei voli da Narita subiscono ritardi di ore, ma il grande aereo francese si stacca da terra ad uno stupefacente, perfetto orario. La sgradevole sensazione del decollo ha un effetto benefico sul mio sistema nervoso, e realizzo, finalmente, di essere al sicuro. Guardo un giornale a caso: Libération apre con un sobrio “Credevo fosse l’Apocalisse”, su una foto di un maelstrom al largo di Sendai. In pochi istanti scivolo in un sonno cupo, senza sogni.